Penso a quello che scrive Brecht nel suo Organon a proposito del cosiddetto “effetto di estraniazione”: l’estraniazione teatrale dovrebbe togliere alle vicende, che subiscono l’influenza di una determinata situazione sociale, quel marchio della familiarità, che oggi le protegge da ogni possibile intervento – e ancora: lo spettatore non dovrebbe immedesimarsi nella vicenda; si dovrebbe anzi impedire che la rappresentazione lo ponga in uno stato di trance; il suo piacere dovrebbe piuttosto consistere nel fatto che, durante la rappresentazione, certe vicende che per lui sono familiari e correnti, subiscono l’estraniazione, per cui egli le considera non in uno stato d’estasi ma di conoscenza, e riconosca ciò che c’è da cambiare, le particolari condizioni a cui un’azione è subordinata; gustare il più alto piacere, dato dalla consapevolezza che possiamo intervenire, nella forma più lieve, perché la forma più lieve dell’esistenza (dice Brecht) è nell’arte… Sarebbe attraente applicare tutte queste considerazioni anche nel campo della narrativa; effetto di estraniazione raggiunto con mezzi linguistici, introdurre nel racconto la consapevolezza che si tratta di un gioco; il gioco dell’arte a carte scoperte, che la maggior parte dei lettori tedeschi giudica “spiacevole” e risolutamente respinge perché “troppo artistico”, perché impedisce di immedesimarsi nella vicenda, perché non crea l’estasi, distrugge l’illusione, vale a dire l’illusione che la storia narrata sia realmente accaduta e via di seguito.

(“Diario d’antepace” – Max Frisch)