Ti andavi a nascondere nelle stanze lungo il corridoio, i soffitti che toccavano il cielo, ti sentivo gridare «Oooohhhh». Il dottore era rimasto solo, l’unico figlio morto sopra alla motocicletta, la moglie che in due anni s’era impazzita e mo’ se ne stava dentro a un loculo d’ospedale. Non te la filavi di stendere i panni, di lavare i pavimenti, ogni volta una bestemmia. «Che sei venuta a fare se non mi aiuti?», ti dicevo, preoccupata che il dottore ci sentiva, mi facevi gridare da una stanza con l’altra, non trovavi pace a stare ferma. Il dottore passava le giornate sulla sdraio sotto al portico, pure d’inverno, con una copertella sopra alle gambe, e mi faceva na’ pena ’ncuoll’ vederlo accussì. Afflitto, hai detto quando ti ho chiamato per dirti che era morto e ci siamo messe a ricordare di quando andavo a pulire la villa del dottore e ti portavo pure a te. Un uomo afflitto; lo dici con competenza visto che sei studiata di psicologia. Ti sei fatta dottoressa e lavori lontano. Vieni poco, tuo padre non ci sta più e io sono rimasta sola, proprio come al dottore. La mia solitudine, però, è più pesante. È una solitudine di lontananza, non di assenza: tuo padre è salito sopra alla nave e chi l’ha più visto. Tu pure te ne sei andata, a farti, come a lui, la vita tua. L’unica che rimane sono io, perché non c’ho né la forza né il coraggio, che poi sono la stessa cosa.
Per telefono hai detto: «Non scendo per Natale. Sono piena di lavoro.»
«Fai come vuoi, non preoccuparti.»
«Non è come voglio, è che devo!» Stai sempre a puntualizzare.
Il dottore è campato fino a 96 anni. Mo’ la villa è in vendita e pare che se la vogliono accattare i tedeschi. C’ho fatto le pulizie per vent’anni e mi sembrava di rubare i soldi. Ma lui diceva che le stanze bisognava farle arieggiare e tenerle pulite ché sennò si deterioravano i muri e a me veniva in mente la carie nei denti.
È la vigilia di Natale, ho messo le lucine sopra alla mensola in sala, il presepe sul tavolino. C’è silenzio da tutte le parti, se non fosse per i ricordi. Il dottore mi ha confidato, tu già eri all’università, che sentire una voce di creatura in quella casa lo metteva di buon umore. Gli piaceva che correvi di qua e di là. Che una volta t’ha vista inseguire un gatto sul prato, afferrarlo per la coda e lanciarlo contro al lenzuolo appeso. Raccontava la scena come se se l’era ripetuta a mente chissà quante volte. Il gatto era scappato e tu di nuovo a inseguirlo come un’indemoniata. Ieri, quando ci siamo sentite, m’è venuta voglia di dirti di ’sto fatto, ma tenevi una voce intossicata e m’è passata la voglia.
Le lucine s’appicciano e si spengono sopra alla mensola, il presepe mi guarda monco di una statuina. Chiudo un poco gli occhi e i ricordi si incastrano in mezzo alle ciglia.
Siamo felici senza che lo sappiamo, penso.
Accussì, però, la felicità non serve a niente.

T.R.