30 agosto 2023; un mercoledì d’autunno. Allestiamo lo spazio del secondo incontro della Palestra di scrittura nel fienile del museo della civiltà contadina. Un tavolaccio lungo, una panca da un lato, quattro sedie dall’altro. Otto quaderni, otto penne, otto indumenti significativi. Questi vengono appesi al cancello del fienile; ognuno potrà trarne ispirazione a suo talento. Dopo una breve introduzione che spazia dall’etimo di abito (dal latino habitus, habere, nel senso di comportarsi) a quello di armadio (dal latino armarium, ripostiglio delle armi. E cosa possono essere gli abiti, dico, se non, anche, a volte, armi, scudi?) E ancora l’orlo, il confine. L’immaginazione che da significato all’esperienza, la meraviglia che apre al senso. L’abito ci tocca, ci accarezza e ci scalda, ci rivela nascondendoci. È abitudine del nostro apparire. È abitare.
«Un fazzoletto, una gonna, delle scarpe, un cappello, un maglione… divengono non solo sostanza, ma – attraverso la parola – sono il nostro “qui”.» (“Il filo nascosto” – Emanuela Mancino)
Gesto, movimento, corpo, respiro, sudore, l’abito accoglie e conserva tutto questo. Tutto questo è testimonianza di essere nel mondo, di esserci stati. Il senso del nostro stare nel e al mondo si compone solo grazie alla parola. Lascio quindi spazio e tempo (venti minuti) alla loro penna. Ylenia dopo qualche minuto si alza, mi si avvicina per dirmi che non sa cosa scrivere. Le chiedo qual è il suo indumento, indica il gilet blu a rombi fatto a mano da lei a 11 anni… è già questo una storia, le dico. Non la convinco ma torna a sedersi e piano piano comincia a ricamare parole sul quaderno. Trascorre il tempo con lentezza, osservo le colline immerse nella foschia, la leggera pioggia che la inumidisce, osservo Francesca che ha riposto il quaderno e a testa china aspetta, Laura sfoglia uno dei libri che ho portato. Scaduti i venti minuti ognuno legge il suo scritto. Dalla voce di Luisella il maglione della nonna dice di un caldo abbraccio. «E la chiamo con il suo nome, non semplicemente stoffa. Lei era così, un filo che srotolava ogni giorno della sua vita e che componeva giornate apparentemente tutte uguali ma piene di situazioni diverse.» (“Un cassetto aperto”)
“Il regalo” di Daniela inizia con il compleanno della protagonista e un incontro emozionante. «Hai il tempo di un ciao perché io ti salto letteralmente al collo abbracciandoti con tutta la forza che ho. Anche le tue braccia sono felici di vedermi, lo sento.» Il regalo è il foulard che sta insieme agli altri indumenti qui stasera. «I nostri regali ci avrebbero permesso di abbracciarci ogni volta che lo avessimo desiderato.» Silvia e Daniela M. scrivono un racconto sui pantaloni con le spirali (indumento di Silvia), racconti complementari. Il punto di vista di Daniela M. è esterno, quello di Silvia interno. «Si nasconde dietro un angolo, o sotto una piega di una tovaglia allo spigolo di una tavola o come adesso, esplode nella grafica del tessuto di un paio di pantaloni indossati da un’ignara ragazza che passa, e ripassa, e percorre su e giù questo corridoio sfiorandoti quasi. E tu sei lì seduta e incantata, imbambolata, completamente persa, rapita, con lo sguardo fisso ai suoi pantaloni…» (“L’incanto” – Daniela M.)
«In un giorno caldo d’estate, leggera e felice nel cuore, i tuoi vortici leggeri mi accompagnavano in una danza armonica, come il vento tra le foglie. Ogni passo era un ondeggiare libero e festoso caldo come il sole, come il tuo colore, allo stesso tempo forte e deciso.» (“Unite da un unico filo” – Silvia)
Francesca ne “Lo scambio”: «Aveva tanti golfini nuovi, colorati, nell’armadio ma indossava sempre lo stesso vecchio bucato pallido e fino. E per di più con i pizzi, che lei aveva sempre disprezzato.» Inizialmente Francesca voleva portare un foulard all’incontro ed era convinta di averlo preso dal cassetto, mentre invece si era ritrovata in mano il golfino del racconto. Anonimo, senza valore, ma che la protagonista indossava spesso al posto della vestaglia al mattino. Un lapsus tutto narrativo. Marina non sceglie un abito ma li considera tutti nel suo racconto dal titolo duplice, “So stare nel mio abito”. «So stare nel mio abito, mi prendo il gusto di unire le due parole… sostare. Esco, un abito è fatto per uscire, la stoffa mi accarezza, non mi stringe né costringe. Sono fiera dei miei passi così… così… così… romantici…» Laura sceglie la sua camicia, con disegni di elefanti e un taglio orientale. «Una vita a sé non contaminata dal mio indossarlo, con un po’ di ritrosia non ne ricordo la provenienza ma sento il calore e il fragore di una terra lontana caotica al di fuori e forte e taciturna tra le mura.» (“Il fumo”). Infine Ylenia e il suo “Il cortile”: «Ogni giorno alle tre e trenta il ritrovo era sempre lì, all’interno del grande cortile per gran parte assolato, con da una parte il tavolo sotto ai tigli e dal lato adiacente le panche in fila, ordinate, disposte una di fronte all’altra. […] Poi le piccole mani di bambine di ogni età si muovevano lente e incerte ma riuscivano delicatamente a colorare con ago e filo quei cenci di tessuto fino a quando arrivava l’ora del gioco.»
Si passa al buffet preparato da Antonella, direttrice del museo, e prima di salutarsi ognuno prende, a caso, la cartolina con il dipinto di Pierluigi Piccinetti, “La sedia”; ne ho stampate otto copie e ho chiesto a ognuna di scrivere dietro una frase significativa del loro racconto. Un souvenir d’artista? Forse, di sicuro un ricordo di questa fredda serata di fine estate riscaldata dalle parole e dalla bellezza.

T.R.