Enrica veniva verso di me galleggiando come una gondola. I capelli crespi s’erano solo imbiancati. Nel rivederla dopo tanti anni, mi sovvenne la frase “la bestiola delle baracche”; così l’apostrofava mio nonno le volte che doveva giustificarne la presenza davanti agli ospiti. Enrica era la nostra domestica. Il nonno ne deplorava, appena poteva, la sporcizia. Il mantesino macchiato, le dita annerite, i piedi deformati da calli di pietra. L’aveva voluta mio padre, l’uomo buono di casa.
Enrica, neanche ventenne, aveva un figlio nato in chissà che circostanze.
Nessun marito.
Era la figlia disgraziata del nostro giardiniere.
Mio padre era morto dopo due mesi di terapia intensiva senza mai svezzarsi dal respiratore. Nella camera mortuaria la bara era aperta; sedute d’intorno, oltre alle prefiche del paese, mia madre e due mie zie. La salma di mio padre era ricoperta da un velo bianco sul quale giacevano immaginette di santi e petali di rosa. Il volto era stato composto e truccato; innaturalmente lucido, non emetteva lucore. S’intuiva da sotto la mascella un nastro che si perdeva nel fosso del cuscino. L’ictus l’aveva colpito alla parte sinistra.
Enrica mi si parò davanti: “Condoglianze”. Il garrito metallico di una rondine.
Replicai un grazie confondendomi nell’ipnosi di quegli occhi che rovistavano nei miei.
“Ti si’ fatta vecchia pur’ tu!”. La frase detta come si dice un rigo di preghiera.
Quindi galleggiando entrò nella camera mortuaria; fece il segno della croce, s’inchino prima verso la bara poi verso mia madre.
Subito ne uscì.
Teneva stretta nella mano destra una pochette di velluto nero con chiusura a fermaglio.
Ricordavo di Enrica il gruzzolo di banconote arrotolato tra i seni. E l’acido delle ascelle. E la ruvidezza delle mani quando mi strattonava per non farmi calpestare il pavimento appena allavato, quella lingua animalesca, composta di grugniti, rare parole, significati da intuire tra lo sfastidio e la fatica.
Mi si fermò accanto. L’odore della bestiola mi raggiunse con rapidità, così come la scena dell’acqua bollente. Una cicatrice indelebile segnava il legame con questa donna che nulla sapeva di me se non che mi fossi fatta vecchia pure io.
“Cumm’ staje?”, garrì sottovoce.
“Bene”.
“Agg’ saput’ e’ maritet’”.
Non dissi nulla. Tutti sapevano che mio marito era morto tre anni dopo il nostro matrimonio, di tumore, e che non avevo figli.
La notizia s’era diffusa a velocità supersonica. Tra tutti quelli che erano venuti a dare l’estremo saluto a mio padre avevo notato, nel rivolgersi a me, un supplemento di pena.
Mi sentivo appesantita da tutte le morti del mondo.
Questi i fatti: io che corro in cucina per buttare un fiore nella pattumiera. Enrica che sta per scolare la pasta nel lavandino. L’urto involontario e l’acqua bollente che colpisce la spalla destra, risparmiandomi la faccia.
Dovevo aver urlato, o forse era stata lei. Mio padre si trovava nell’altra stanza, al telefono.
Era corso in cucina, mi aveva, come prima cosa, tolto la maglia e la canottiera. Indossavo un dolcevita aderente il cui collo stretto faticava a liberare la testa. Mio padre tirava con tanta forza da potermi decapitare.
In ospedale mi avevano ingessato il braccio. All’atto della rimozione del gesso la ferita era ancora aperta.
Mia madre s’era quindi rivolta a una donna delle baracche, parente di Enrica, di nascosto da mio padre e da mio nonno, la quale, massaggiandomi la ferita e recitando preghiere a fior di labbra, era riuscita laddove la medicina aveva fallito. Ricordo la penombra di quella baracca, l’odore di incenso, le mani lisce. Credo che questo abbia agito nel tenere Enrica con noi, anche se dopo l’episodio dell’acqua bollente, mio nonno aveva dichiarato tassativo: “Non me la fate vedere in giro per casa”.
Così Enrica aveva smesso di pulire lo studio nel quale mio nonno, nonostante fosse in pensione, continuava a ricevere clienti elargendo consigli e pareri senza emettere parcella.
Quella volta dell’acqua bollente mia madre non era in casa. Forse era andata dal coiffeur – in casa si usava il linguaggio imposto da mio nonno. Dacché era rimasto vedovo viveva con noi, al piano di sopra della villa. Al piano di sotto nessuno più scendeva, di tanto in tanto solo mio padre.
Una volta lo seguii, era sera, al principio di novembre.
Le porte finestre vibravano; era vento di scirocco, lo ricordo bene, raro per quella stagione. Sul pavimento ristava una candela la cui fiamma minima ingigantiva le ombre contro la parete. Tremavano le ombre così come il vetro delle finestre. E iniziai a tremare pure io nello scorgere la sagoma di mio padre in groppa a quella di Enrica.
La stava prendendo da tergo, come sarebbe stato corretto dire.
In quella villa enorme trascorsi tutta l’infanzia e parte dell’adolescenza. Poi partii per Milano; avevo appena diciotto anni. Non vi sarei più tornata se non per brevi visite, sempre più sporadiche. Enrica rimase fino alla morte di mio nonno. Trovai strano che abbandonasse il campo proprio nel momento di una potenziale rivalsa.
Non ebbi mai la voglia (o forse il coraggio) di indagare. Dopo ciò che avevo visto – il segreto delle ombre – Enrica iniziò ad assomigliare a una divinità infera, in grado di irretire un uomo come mio padre. Aveva occhi neri, conturbanti, che una volta fissati dentro ai tuoi, congelavano il pensiero. Il corpo era maestoso; le braccia, che portava sempre nude, avevano una carnosità gagliarda. Le gote erano naturalmente cosparse di un velo di fard. Oggi, ripensandoci, mi accorgo di quanto fosse bella. E di come la ruvidezza dei modi, la lingua animalesca, l’odore belluino non facessero che aumentarne il fascino.
Forse mio nonno la allontanava perché ne era intimamente sedotto.
Il segreto delle ombre lo tenni per me, trasformandolo in un nuovo atteggiamento. Iniziai a rispondere a mia madre, a essere irrispettosa e scontrosa con mio padre. A mio nonno, invece, cui naturalmente davo del voi, continuai a tributare lo stesso incondizionato rispetto. Aveva ragione lui a diffidare della gente delle baracche. Mi sentii subito solidale con il suo modo di vedere il mondo e di catalogarlo.
A Enrica presi a rivolgermi con sprezzo e maleducazione. Apposta passavo sul pavimento allavato costringendola a ritornarvi con lo straccio. Spargevo briciole ovunque; fazzoletti e cartacce per terra. Tornavo dal giardino con le scarpe sporche di terra. Quando Enrica se ne avvedeva la sentivo sbuffare e bestemmiare.
Dell’episodio dell’acqua bollente si smise di parlarne quasi subito. Mio padre mi aveva preso da parte, dopo l’estate, per dirmi che era meglio non “mortificare” Enrica – disse proprio così, mortificare – rivangando l’episodio.
Questo accadeva prima del segreto delle ombre. Quando cioè, ai miei occhi, la figura di Enrica non aveva peso. Arrivava da noi la mattina alle otto, andava via la sera alle sette. Arrivava e se ne andava con suo padre. Si chiamava Carmine, rimase a curare il giardino della villa fino alla morte.
Stringevo mani e ricevevo condoglianze; qualcuno si spingeva a baciarmi. L’odore di dopobarba era acuto. Per lo più si trattava di contadini, muratori, pescatori. Le persone illustri del paese si sarebbero palesate direttamente in chiesa per il funerale, a occupare i primi banchi, avrebbero messo in mostra il loro prestigio, composto di frasi laconiche, un lieve contatto della mano, nessun bacio. Terminata la funzione, si sarebbero attardarti sulla scalinata, rivolgendo uno sguardo verso il basso a chi, assiepato lungo il corso, non aveva trovato posto all’interno della chiesa.
Enrica continuava a starmi accanto, statuaria; ne percepivo l’odore e il lieve movimento della testa. Volevo che se ne andasse. Ma insisteva nel rimanere.
“Quanto ti stai?”
“Non lo so, il tempo necessario”.
Avevo usato un tono infastidito con il quale intendevo comunicarle l’inopportunità della domanda.
“È che tengo da parlarti”.
“Dimmi…”.
“È una questiona delicata”.
Le mani rattenevano la pochette con forza: s’erano fatte bianche.
Ci incontrammo due giorni dopo a casa sua. Non c’ero mai stata. Abitava in una zona collinare. Tutt’intorno alla casa c’erano ettari di terreno ben tenuti. Vigne, ulivi. Davanti un orto piccolo che, mi disse, curava lei. Del resto, invece, si occupava il figlio, Michele. In quel momento era al campo.
Io avevo tagliato i capelli a zero; sentivo la necessità di ripulirmi. La notizia dell’ictus di mio padre era squillata mentre ero dal coiffeur; la tinta in posa per altri trentasei minuti.
Nel vedermi con la testa rasata Enrica non aveva commentato. Si era limitata a farmi accomodare in cucina mentre lei metteva la macchinetta sopra al fuoco.
“Cosa devi dirmi?”
“Ti debbo dire di Michele”. Pausa. “Che è fratello a te”.
“…”.
“È fratet’!”.
“Ma che dici?”.
“C’ho una carta firmata da tuo padre e da tuo nonno”.
Era assurdo quello che Enrica andava dicendo, il dogma di quella fratellanza inconcepibile.
Non poteva essere vero, così negai con la testa. Il gorgoglio del caffè colmò il silenzio.
La carta venne spiegata davanti ai miei occhi. Autentica e assoluta.
“E che vuoi da me? Soldi?”
“Ma che vai ricenn’?”
“E allora?”.
“Voglio che vi volete bene”.
“Perché?”.
“Cumm’ perché?”.
Era in piedi presso i fornelli, intenta a girare con il cucchiaino lo zucchero dentro alla caffettiera.
Da fuori giungeva il cinguettio di molti uccelli.
Poi il motore del trattore irruppe nella concentrazione.
“È Michele”.
Il cuore prese a concitare.
Il motore tacque.
La porta si spalancò.
T.R.
Molto bello qs racconto breve…intenso