Chiunque ha assistito un malato conosce questa specie di trance servile, che attutisce la sensibilità e sterilizza, oltre che i gesti, persino le cose stesse (merda e piscia) che tocca maneggiare, e i loro nomi che diventano neutrali, oggettivi, e non ispirano più ripugnanza o infantile comicità. Non fanno più senso. E non si tratta di compassione, ma piuttosto di assuefazione, assuefazione alla pigra mancanza di pudore della materia che si sfalda, si degrada, la carne malata e indifferente che si ammucchia davanti agli occhi, si distende come un misero aggregato di cellule senza capo né coda, ma per essere giusti più che di degrado bisognerebbe parlare di una totale assenza di sfumature, non c’è scarto qualitativo, non vi è più alcuna differenza tra lo sporco e il pulito, tra l’umano e il disumano, tra il corpo e la stoffa che lo ricopre e il bicchiere pieno d’acqua sul comodino, e la pantofola scalcagnata, e la plastica del pappagallo con la riga gialla del suo contenuto, tutto è materia che niente può riscattare, regno desolato della pura quantità, la carne ormai è caduta al livello dei suoi stessi escrementi e anche più in basso, e se (mentre sperimenta l’inarrestabile velocità di tale caduta) uno continua ad opporvisi è soltanto per una meccanica resistenza alla realtà. Dunque: le frizioni con l’alcol, il cambio della maglietta zuppa di sudore gelato e maleodorante. L’igiene, la dignità, come si dice, del morire. Si fa di tutto per questo corpo per cui non c’è più niente da fare. In queste condizioni persino la persona più schizzinosa può trasformarsi e rendersi ottusa al disgusto che normalmente proverebbe: la soglia della sgradevolezza è improvvisamente crollata.

(“Nascita e morte di un ingegnere” – Edoardo Albinati)