La casa del morto non era distante, ma già a centinaia di metri si sentiva il canto cupo dell’attittu. Ogni volta che si levava quel lamento dalla musicalità sguaiata, era come se ai sorenesi venissero cantati i dolori di ogni casa, quelli presenti e quelli andati, perché il lutto di una famiglia risvegliava la memoria mai sopita di tutti i singoli pianti passati. Allora le ante delle finestre del vicinato venivano accostate, rendendo ciechi al sole gli occhi delle case, e ciascuno accorreva a piangere i propri morti nel morto presente, per interposta assenza.

(“Accabadora” – Michela Murgia)