Nonna teneva quelle sue manelle storte sopra ai grani del rosario e ogni volta che finiva di recitare un mistero faceva scivolare le dita sul grano dopo. Aveva cominciato a non vederci bene, piano piano, un giorno con l’altro; Don Giacinto aveva fatto chiamare al dottore che aveva puntato la luce dentro agli occhi di nonna e giusto qualche sospiro, il dottore era uscito dalla stanza, aveva messo una mano sopra alla spalla di Don Giacinto che stava seduto di traverso alla tavola e aveva detto: «Si tratta di un evidente caso di maculopatia degenerativa, da qui non si torna indietro, lo stadio finale è la scemità». Avevo capito così, ma poi quando il dottore era tornato e aveva ripetuto paro paro quello che aveva detto la volta prima, alla fine la parola corretta era cecità. Qui nel paese ce ne stanno tanti di quelli con la scemità; molti stanno chiusi in casa perché sono una vergogna per la famiglia, altri stanno in miez’ a chiazz’ a chieder soldi, a farsi offrire i caffè e poi ci sta Cul e’ ciuccio che tiene una faccia come quelle delle maschere di cartapesta, scura scura, e i baffi gialli. Cul’ e’ ciuccio è famoso perché durante la processione di Santa Cecilia ha cagato davanti a tutti quanti.
Io da piccirella vivevo con mamma nella casa di nonna, mio padre non sapevo che faccia teneva; sapevo solo che stava imbarcato e che un giorno poi tornava. Poi mamma si è ammalata e in capo a manco due settimane è morta. «Mamma mamma», chiamavo, ma quella gli occhi non li apriva.
Il giorno del funerale sono rimasta con la figlia della vicina, più grande di me. Si chiamava Cecilia, come la santa del paese: «Tua madre mo’ la mettono sotto alla terra», diceva, «e se la mangiano i vermi». Nonna è venuta a prendermi la sera: «Luce’, adesso tu te ne vieni a stare con me nella canonica, però mi devi aiutare con i mestieri, hai capito?».
E così a scuola non ci sono andata più.
Il sindaco, tutto vestito di nero, è arrivato in canonica con due uomini alti, pure loro vestiti di nero; parevano tre corvi. I due uomini alti hanno tramestato con il cadavere di Don Giacinto, l’hanno vestito e hanno messo la bara aperta in mezzo alla stanza. Gli hanno pittato la faccia e addrizzato la mascella che s’era sturzata per via che il parroco aveva visto la morte in faccia, così diceva la gente; la faccia di Don Giacinto dentro alla bara pareva di cera tanto era lucida.
Il sindaco è entrato nella stanza nostra, ha accostato una sedia di fronte a quella di nonna, ha preso le manelle dentro alle sue e ha detto: «Grazia, cumm’ staje?».
«Chi siete?».
«Antonino, il figlio di Senese, t’arricurd’?».
«E come no!».
«Il momento è brutto, me ne rendo conto, ma tra qualche giorno arriva il nuovo parroco, è uno del nord, e si porta dietro alla perpetua sua».
«E io e Lucetta aro’ ce ne jamm’? La casa mia l’agg’ vennuta e i soldi li ho dati alla parrocchia, figlio mio».
«Di questo non ti devi preoccupare…».
Io mi trovavo dietro alla tenda dove stava il letto mio. Il sindaco diceva che dovevamo impacchettare con calma le nostre cose ché nei prossimi giorni degli uomini venivano a prenderle per portarle a destinazione. Non diceva qual era questa destinazione e nonna nemmeno chiedeva, così sono spuntata fuori dalla tenda e ho detto: «E dove ci mandate, si può sapere?».
La faccia del sindaco si è fatto di fuoco.
«E tu chi sei, Lucetta?».
«Sì».
«Ti sei fatta bellella assai».
«E allora, dove ci mandate?».
«Come stavo dicendo a tua nonna, per lei la sistemazione è dalle Clarisse e per te…».
«Perché, ci separate?», era intervenuta nonna con un filo di voce.
«La ragazza è giovane e può trovare un buon impiego…», mi guardava da sotto a sopra, gli occhi da corvo si erano posati sopra alle zizze; e pungevano.
«Io voglio stare con nonna».
«Certo, mi rendo conto, capisco Luce’».
«Mi chiamo Lucetta».
«Luce’, non fare la maleducata!», il rimprovero di nonna rivolto al pavimento. Teneva la testa bassa, la schiena tutta incurvata; potevo contare i grani della colonna vertebrale attraverso la camicia.
La faccia del sindaco era lucida come quella di Don Giacinto dentro alla bara; agli angoli della bocca teneva due sputacchi bianchi.
Il vento s’era messo a soffiare forte forte fuori il vicolo e io mi ero arricordata di quando Don Giacinto una volta aveva detto che se lo ascoltavi bene lo sentivi pregare, al vento. A me mi sembrava strano che il vento diceva le preghiere, ma quella sera invece l’avevo sentita la preghiera del vento.
«Luce’, Luce’… vieni».
«Avete bisogno?».
«Luce’» – nonna mi cercava con la mano dentro alla stanza – «Luce’, tu te ne devi andare da qua».
«Che dite?».
«Te ne devi andare, sient’ a me».
La chiave della credenza dove stavano stipate tazze e bicchieri la conservava nonna. Poche volte l’avevo aperta e quella sera, dopo che se n’erano andati tutti quanti, nonna me l’aveva data con una raccomandazione: «Cerca bene dietro all’anforella gialla, ci sta una zuccheriera».
Così quella sera stessa, con la valigia che avevo sempre visto sotto al letto di nonna, mi sono incamminata per il sentiero dietro alla chiesa.
«Seguilo senza distrarti e non ti spaventare degli animali; gli animali tengono più paura di te. Tu cammina cammina cammina fino a che non arrivi alla Contrata Fioroni, tre case e un fienile. La prima casa che sconti è quella di mastu Ciro, bussa e dì che sei la nipote di Grazia Luce Paradiso».
T.R.
(Anche questo, come il precedente racconto, “L’armadio con i fiori bucati” pubblicato il 27 giugno 2019, mi è stato ispirato dalla foto e ringrazio ancora Daniela Mezzanotte per avermene fatto dono)
Molto ben scritto!