Mr Duffy aborriva il minimo segno di disordine, fisico o mentale che fosse. Un dottore medioevale l’avrebbe definito un saturnino. Il suo volto, sul quale era stampata l’intera storia degli anni trascorsi, aveva il medesimo color bruno delle vie di Dublino, mentre sulla testa oblunga e piuttosto grossa crescevano capelli neri e aridi, e un paio di baffi rossicci non riuscivano a coprire del tutto la sgradevole bocca. Anche gli zigomi contribuivano a conferire al suo volto un che di aspro, eppure non c’era nota di durezza negli occhi i quali, osservando attorno da sotto le sopracciglia rossicce, davan l’impressione di un individuo sempre pronto a cogliere nel prossimo impulsi di redenzione, pur restando quasi sempre deluso. Viveva a una certa distanza dal proprio corpo, osservandone gli atti con dubbiose occhiate di sbieco. Aveva inoltre una curiosa propensione autobiografica che lo portava, di quando in quando, a comporre nella mente brevi frasi su se stesso col soggetto in terza persona e il verbo al passato. Non faceva mai l’elemosina ai mendicanti e camminava con passo sicuro, stringendo un robusto bastone di nocciolo.

(“Gente di Dublino” – James Joyce)