L’anno della prima media la nostra casa venne ristrutturata. La mia nuova stanza aveva un armadio a muro bianco di fronte al letto, un inginocchiatoio-comodino, un crocifisso ligneo in testa al letto. Alle pareti due stampe erotiche di De Chirico e un ritratto di me bambina con i capelli raccolti in due code laterali. L’aveva realizzato il pittore Bolivar, tanto amato da mio padre, il quale ne incoraggiava il talento commissionandogli lavori per noi – la casa aveva le pareti disseminate di quadri di Bolivar – e per amici. Un pomeriggio d’estate mio padre mi aveva accompagnato a casa di Bolivar lasciandomi sola con lui. Questi mi aveva fatto accomodare su una sedia e mi aveva detto di stare ferma. Impugnato il pennello io ero scappata nel giardino appena fuori lo studio, odoroso di aranci e tracimante luce. Il pittore, con lo sguardo furente e annacquato, le guance scarne e il passo tosto nel rincorrermi, sbuffava con le braccia tese in aria. La mia fuga successe altre due volte. Poi mi rassegnai all’immobilità. Mio padre di tanto in tanto cambiava posizione ai quadri e chiedeva a me di aiutarlo. Saliva sulla scala, io la reggevo con le mani: «È dritto?», domandava, ed era tutto ciò che ci dicevamo. L’intera mia infanzia può ridursi a questi due episodi di cui serbo, intonsi, suoni, odori e contorni.
Adulta, ho peregrinato in città, case e arredi fino a perderne il conto, senza mai tuttavia separarmi dai quadri della mia stanza e dai silenzi che ancora li abitano.

T.R.