Tutti sorvegliavano tutti. Bisognava assolutamente conoscere le vite degli altri – per poterle raccontare – e rendere la propria inaccessibile – perché non fosse raccontata. Un complicato equilibrio strategico fra «cavare le informazioni» a qualcuno senza che se ne accorgesse e, di contro, non sbottonarsi in nessun modo, lasciarsi andare giusto su faccende «di poco conto, che si possono sapere». Il passatempo preferito era guardare le persone, all’uscita del cinema, all’arrivo dei treni, la sera, alla stazione. Qualsiasi assembramento era di per sé una ragione più che sufficiente per prenderne parte. La fiaccolata notturna o il passaggio della corsa ciclistica fornivano l’occasione per godersi tanto lo spettacolo in sé quanto la vista dei presenti, per tornare a casa e raccontare chi altro c’era e con chi. Si osservava ogni comportamento, si sviscerava ogni azione fino al movente più recondito, si mettevano assieme piccoli segnali che, accumulati e interpretati, andavano a formare la storia degli altri. Un romanzo collettivo il sui senso generale era costituito dai frammenti di racconto e dai dettagli apportati da ciascuno, e che, a seconda delle persone riunite in negozio o a tavola, poteva riassumersi con «è una persona a modo» o «è una donna di poca cosa».

(“La vergogna” – Annie Ernaux)