Ivàn Dmitrič Gromov, un uomo sui trentatré anni, nobile, ex usciere giudiziario e segretario del governatorato, soffre di mania di persecuzione. Egli o sta sul letto raggomitolato, oppure cammina da un angolo all’altro, come per fare dell’esercizio; seduto ci sta assai di rado. È sempre eccitato, inquieto e in uno stato di tensione per l’attesa di qualcosa di vago e d’indefinito. Basta il più piccolo fruscio nell’entrata o un grido nel cortile perché egli sollevi la testa e tenda l’orecchio: non verranno a chiamarlo? Non cercano lui? E il suo viso esprime intanto una estrema ansietà e lo sgomento.
Mi piace il suo viso largo, dagli zigomi forti, sempre pallido e addolorato, che riflette come uno specchio l’anima torturata dalla lotta e dal continuo terrore. Le sue smorfie sono strane e penose, ma i fini lineamenti che una profonda e sincera sofferenza imprime al suo viso sono quelli di una persona ragionevole e intelligente, e gli occhi hanno una luce sana e calda. Mi piace anche lui stesso, così affabile, servizievole e delicato oltremodo nei suoi rapporti con tutti, eccettuato Nikita (il custode del padiglione, ndr). Se qualcuno lascia cadere un bottone o il cucchiaio, egli balza in fretta dal letto e lo raccatta. Ogni mattina dà il buon giorno ai compagni, mettendosi a dormire augura loro la buona notte.
Oltre che nel continuo stato di tensione e nelle smorfie, la sua follia si manifesta anche in questo. Talvolta di sera egli si chiude nella sua veste da camera e, tremando in tutto il corpo e battendo i denti, comincia a camminare in fretta da un angolo all’altro e fra i letti. Si direbbe che ha una febbre forte. Da come si ferma all’improvviso e getta occhiate ai compagni si vede che vorrebbe dire qualche cosa di molto importante, ma evidentemente, considerando che non lo ascolterebbero o non lo capirebbero, scuote con impazienza la testa e continua a camminare. Ma presto il desiderio di parlare prende il sopravvento su qualsiasi considerazione ed egli si dà via libera, parlando con calore e passione. Il suo discorso è disordinato, febbrile, come un delirio, a scatti, e non sempre comprensibile, ma però si sente in esso, tanto nelle parole che nella voce, qualcosa di straordinariamente buono. Quando parla, riconoscete in lui il pazzo e l’uomo. È difficile trascrivere sulla carta il suo insensato discorso. Parla della bassezza umana, della violenza che calpesta il diritto, della vita bellissima che col tempo ci sarà sulla terra, delle inferriate che gli ricordano a ogni minuto la stupidità e la crudeltà degli oppressori. Ne risulta un disordinato, sconnesso guazzabuglio di motivi vecchi, sì, ma non ancora finiti di cantare.

(“La corsia N. 6” – Antòn Pavlovič Čechov)