Ed ecco che nell’immaginazione di Il’ja Il’ič avevano cominciato, allo stesso modo, uno dopo l’altro, ad aprirsi come quadri i tre atti principali della vita, recitati dalla sua famiglia e dai suoi parenti e conoscenti: la nascita, il matrimonio, il funerale. (…)
Ecco tutta la loro vita e la loro scienza, ecco tutti i loro dolori e le loro gioie: perciò essi non volevano altre preoccupazioni e altre pene, e non conoscevano altre gioie; la loro vita vibrava solo di questi fondamentali e inevitabili avvenimenti che davano un inesauribile nutrimento alla loro mente al loro cuore.
Con il cuore che palpitava aspettavano il rito, il banchetto, la cerimonia, e poi, dopo aver battezzato, sposato o seppellito qualcuno, si dimenticavano di lui e del suo destino e sprofondavano nella solita apatia, dalla quale li toglieva un nuovo caso del genere: un onomastico, un matrimonio e via dicendo.
Appena nasceva un bambino, la prima preoccupazione dei genitori era di celebrare il più esattamente possibile, senza la minima dimenticanza, tutti i riti richiesti dal decoro, vale a dire organizzare, dopo il battesimo, un banchetto; dopo di che cominciavano a affaccendarsi e ad averne cura.
La mamma proponeva a se stessa e alla njanja questo compito: far crescere un bambino sano, proteggerlo dai raffreddori, dal malocchio e da altre circostanze avverse. Si davano da fare, diligenti, perché il bambino fosse sempre allegro e mangiasse molto. Non appena mettevano il giovinetto sulle gambe, non appena, cioè, non aveva più bisogno della njanja, nel cuore della madre si insinuava il segreto desiderio di trovargli una fidanzata, anche lei in salute, anche lei bianca e rossa.
Arrivava ancora un’epoca di riti, di banchetti, e poi il matrimonio; in ciò si concentrava il pathos della vita.
Poi cominciava già la ripetizione: la nascita dei bambini, i riti, i banchetti, finché i funerali non cambiavano lo scenario: ma non a lungo: solo i volti prendevano il posto gli uni degli altri, i bambini diventavano giovanotti e, con ciò, fidanzati, si sposavano, producevano dei simili, e così via, e la vita, seguendo questo programma, si allungava in una trama uniforme e infinita, che si strappava, inavvertitamente, proprio sul bordo della tomba.

(“Oblomov” – Ivan A. Gončarov)